Medici, Infermieri e OSS aggrediti. Militarizzare l’ospedale è una soluzione?
Medici, Infermieri, OSS ma anche professionisti sanitari, amministrativi e altri degenti. Le notizie di aggressioni negli ambiti di cura sembrano essere in aumento e non fare sconti a nessuno.
Negli ultimi giorni, però, pare che si sia alzata l’asticella.
In Alto Adige in pochi giorni si è assistito prima ad un’aggressione in cui un paziente ha usato un coltellino contro un medico, poi ad un uomo che è entrato in ospedale armato di pistola.
Fra i casi peggiori degli ultimi mesi, ma non gli unici di questo livello purtroppo.
Come spesso succede, a fronte di un evento importante l’emotività dei sanitari si è imbizzarrita arrivando a chiedere a gran voce interventi ancora più drastici rispetto a quelli già richiesti in passato.
Scandagliando stampa e social networks è possibile osservare come l’opinione pubblica abbia reagito avanzando richieste di metaldetector, posti di guardia con il coinvolgimento di militari e guardie giurate con teaser.
Del resto è un fenomeno normale e intrinseco in ognuno di noi: a fronte di un’aggressione al nostro senso di sicurezza, si crea un bisogno di sicurezza inverso e proporzionale.
Una sorta di principio di archimede applicato alla nostra precezione di sicurezza, dove per galleggiare occorre una spinta verso l’alto (misure di sicurezza) pari al peso del liquido spostato (grado di minaccia alla sicurezza percepito). In caso non vi sia equilibrio, affonderemmo.
Ma siamo sicuri che militarizzare la sanità rappresenti una reale soluzione?
Perchè se questi semplici meccanismi di causa-effetto hanno un suo ben strutturato perchè teorico, in realtà queste teorie applicate alla gestione dell’aggressività parla di ben altro.
Per restare sempre in ambito scientifico, secondo i newtoniani principi della dinamica, due forze uguali e contrapposte NON SI ANNULLANO.
Detto questo, siamo quasi sicuri che nè Archimede nè Newton si siano mai presi un pugno in una sala di attesa o durante un colloquio con un parente in ospedale.
Scendendo quindi verso la realtà tangibile potremmo quindi affermare che fare muro contro muro non porta altro che ad ulteriore fomentazione della forza.
Le fasi dell’aggressività non hanno una durata standardizzabile e la fase di escalation, che precede la fase critica, è quella in cui è possibile intervenire con un approccio relazionale.
Condizioni fisiche e ambientali che possano manifestare controllo e soppressione portano solamente a velocizzare temporalmente la fase di escalation, facendo raggiungere quindi più rapidamente la fase critica. All’interno della quale è quasi impossibile intervenire con approccio relazionale di de-escalation.
Militarizzare l’ospedale porterebbe quindi sicuramente a vantaggi quali un controllo ed un intervento più efficaci, ma potrebbero altresì portare anche ad un aumento dei fenomeni o della loro gravità.
Immedesimandosi in un soggetto violento, se ho intenzione di pretendere qualcosa in ogni modo, posso anche pensarr di stringere semplicemente un pugno se mi trovo davanti un infermieri.
Se mi trovo davanti una camionetta militare davanti al pronto soccorso posso anche decidere di usare un coltello, una pistola o altro. Reagendo proporzionalmente alla minaccia di soppressione della mia frustrazione che mi trovo davanti.
Proprio come diceva Archimede, ma cambiando la natura dei dati: a fronte della soppressione del mio diritto presunto di sfogare la mia repressione (forza che mi affonda), reagisco elaborando una spinta uguale e contraria che mi permetta di non affondare.
Gli interventi sono quindi, forse, da cercare altrove.
Dovremmo lavorare forse sulla forza che affonda l’individuo violento, ovvero la sensazione di frustrazione.
Riducendola, rimodulandola, fornendo gli strumenti al personale sanitario per alleggerirla con tecniche di de-escalation.
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