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L’Infermiera, la Paziente e quell’invito da rifiutare.

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Era una sera di novembre quando ricevetti quel messaggio. Sara, la mia ex paziente del reparto psichiatria, mi invitava a cena a casa sua. “Voglio ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me”, scriveva. Dopo cinque anni dalla sua dimissione, sembrava finalmente stare bene. Che male poteva fare?

Arrivai alle otto in punto. L’appartamento era accogliente, profumato di lasagna al forno. Sara mi accolse con un abbraccio stretto, troppo stretto. Notai subito qualcosa di strano: continuava a toccarsi il polso sinistro, come se controllasse un orologio inesistente.

“Mangiamo in cucina”, propose, guidandomi attraverso il corridoio. Passammo davanti a una porta chiusa. “Che c’è in quella stanza?”, chiesi per rompere il ghiaccio.

“Oh, solo ripostiglio”, rispose troppo in fretta. Ma mentre diceva queste parole, un rumore metallico proveniente dalla stanza fece vibrare il pavimento. Sara scoppiò a ridere: “Questo vecchio palazzo ha sempre degli scricchiolii!”

Durante la cena, ogni cosa sembrava normale. Troppo normale. Parlammo del suo lavoro, della sua terapia. Ma ogni 15-20 minuti, quel rumore metallico si ripeteva. E poi c’era quell’altro suono… come qualcuno che si muoveva nella stanza vietata.

Stavo per chiederle di nuovo spiegazioni quando un urlo straziante ci gelò il sangue. Sara si irrigidì. “Sarà la tv dei vicini”, disse con una voce che non la convinceva neanche lei.

Dopo il terzo urlo, non potei più far finta di niente. “Sara, c’è qualcuno in quella stanza!”, urlai alzandomi di scatto.

“No, ti prego!”, cercò di fermarmi. Ma ormai avevo raggiunto la porta. Era chiusa a chiave. Con un calcio deciso, sfondai il legno marcio.

Quello che vidi mi farà incubi per il resto della mia vita.

Dodici bambole vittoriane penzolavano dal soffitto, legate per il collo con fili di nylon. Al centro della stanza, una donna legata a una sedia con bende psichiatriche. Quando alzò il viso, il mio cuore si fermò: era Sara. La vera Sara.

Mi voltai lentamente. La donna che mi aveva invitato a cena si stava strappando il volto. O meglio, una maschera di lattice incredibilmente realistica.

“Finalmente ci siamo”, sibilò Elena, una paziente che avevo conosciuto anni prima durante il mio tirocinio. “Ti ricordi di me? Quella che nessuno ascoltava mai?”

Mentre chiamavo i soccorsi con mani tremanti, Elena rideva. “Non preoccuparti per Sara. Lei è solo la prima bambola della mia collezione. La prossima volta…”, mi sussurrò all’orecchio mentre la polizia la portava via, “…sarai tu.”

Ancora oggi, quando sento un rumore strano in casa, controllo due volte che tutte le porte siano chiuse a chiave. Perché Elena è in una struttura di massima sicurezza, vero? Vero?

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