La ronda di mezzanotte.
Il neon della corsia illuminava fiocamente il corridoio dell’Unità Operativa di Oncologia del Santobono. L’orologio digitale sopra la porta segnava le 02:17. Filippo, un infermiere sulla trentina, con occhi stanchi ma gentili, stava completando la sua ronda notturna. Il silenzio era denso, interrotto solo dal sommesso bip di qualche monitor cardiaco nelle stanze. Un’aria fredda, insolita per quella mite notte napoletana, sembrava avvolgere il reparto.
Il ricordo di Michele era ancora vivo nell’aria. Un ragazzo di soli trentacinque anni, strappato troppo presto da un tumore al cervello che non gli aveva lasciato scampo. Filippo lo aveva assistito negli ultimi giorni, ammirando la sua dignità e il coraggio con cui aveva affrontato la malattia. La sua morte, avvenuta solo tre giorni prima, aveva lasciato un vuoto palpabile.
Mentre Filippo passava davanti alla stanza ora vuota di Michele, una leggera corrente d’aria gli fece sollevare i capelli sulla nuca. Si fermò, un vago senso di disagio a percorrerlo. Non c’era nessuna finestra aperta, e l’impianto di condizionamento era silenzioso. Scosse la testa, attribuendo la sensazione alla stanchezza.
Proprio in quel momento, dal fondo del corridoio, emerse la figura del Dottor Andrea Rossi. Andrea, un oncologo di mezza età, portava sul volto i segni di innumerevoli notti passate in ospedale. Sembrava pensieroso, quasi assorto nei suoi pensieri.
“Tutto tranquillo, Filippo?” chiese Andrea, la voce un sussurro nel silenzio.
“Sì, dottore. Solo un po’ di freddo, stranamente.”
Andrea annuì distrattamente. Stava per aggiungere qualcosa quando entrambi udirono un suono flebile provenire proprio dalla stanza di Michele. Un suono leggero, quasi un sospiro.
Si scambiarono un’occhiata interrogativa. Non avrebbe dovuto esserci nessuno lì dentro. La stanza era stata sigillata in attesa della sanificazione.
Con cautela, Filippo si avvicinò alla porta e la spinse lentamente. L’oscurità avvolgeva la stanza, ma una debole luce proveniva dal corridoio, illuminando un piccolo tratto di pavimento. E fu allora che lo videro.
Una figura traslucida, appena percettibile, fluttuava a mezz’aria vicino al letto. Aveva una vaga forma umana, e Filippo ebbe un’improvvisa, inspiegabile certezza: era Michele. Il suo volto, seppur etereo, conservava la dolcezza che Filippo ricordava. Sembrava guardarli, con un’espressione di profonda tristezza.
Il cuore di Filippo perse un battito. Accanto a lui, Andrea rimase immobile, gli occhi sgranati, incredulità dipinta sul volto. Nonostante la sua formazione scientifica e il suo scetticismo, ciò che stava vedendo sfidava ogni logica.
Il flebile sospiro si udì di nuovo, più vicino questa volta. La figura di Michele sembrò allungare una mano traslucida verso un punto indefinito nella stanza. Poi, lentamente, svanì nel nulla, lasciando dietro di sé solo un’eco di freddo e un silenzio ancora più pesante.
Filippo e Andrea rimasero immobili per un lungo istante, cercando di elaborare l’incredibile. La razionalità si scontrava violentemente con ciò che i loro occhi avevano appena testimoniato.
“Hai… hai visto anche tu?” sussurrò Filippo, la voce incerta.
Andrea annuì lentamente, senza distogliere lo sguardo dal punto in cui il fantasma era svanito. “Sì, Filippo. L’ho visto.”
Cosa succederà adesso? Come reagiranno Filippo e Andrea a questa sconcertante apparizione? Cercheranno una spiegazione logica o si lasceranno sopraffare dal mistero?
Il silenzio che seguì la scomparsa della figura di Michele era denso di incredulità e un vago senso di sacro. Filippo sentiva il cuore battergli forte nel petto, un misto di paura e stupore che non aveva mai provato prima. Accanto a lui, Andrea sembrava aver perso la sua abituale compostezza. Le sue mani, di solito ferme e sicure, ora stringevano convulsamente il bordo del camice.
“Non… non è possibile,” mormorò Andrea, la voce roca, quasi un sussurro rivolto a se stesso. “Deve esserci una spiegazione logica. Un’illusione ottica, suggestione…”
Filippo lo guardò. Di solito era lui quello più propenso a cercare spiegazioni razionali, ma ciò che aveva visto era inequivocabile. La fragilità eterea di quella figura, la tristezza palpabile nel suo sguardo… non poteva essere frutto della sua immaginazione.
“Dottore,” disse Filippo con voce calma, cercando di mascherare il tremore interiore, “io so quello che ho visto. E credo che anche lei l’abbia visto.”
Andrea passò una mano sul viso, come per scacciare un incubo. “Sì… l’ho visto. Ma la mia mente si rifiuta di accettarlo. Un fantasma… in un reparto di oncologia…” La frase gli morì in gola, incapace di trovare una conclusione sensata.
Rimasero ancora qualche istante in silenzio, immersi nei propri pensieri. Poi, un senso di urgenza ruppe l’immobilità.
“Dobbiamo… dobbiamo fare qualcosa,” disse Filippo, anche se non sapeva esattamente cosa. “Forse… forse Michele sta cercando di dirci qualcosa.”
Andrea lo guardò, un lampo di incertezza nei suoi occhi. “Cosa potrebbe volerci dire un fantasma, Filippo? E come potremmo mai capirlo?”
“Non lo so, dottore. Ma non possiamo semplicemente ignorare quello che è successo. Era qui, in questa stanza. Un paziente che abbiamo curato, che è morto qui.”
Decisero di comune accordo di non allarmare subito il resto del personale. Avrebbero cercato di capire da soli, almeno per il momento. Ripercorsero mentalmente gli ultimi giorni di Michele, cercando un dettaglio, una conversazione, qualcosa che potesse spiegare quella strana apparizione.
Ricordarono la sua serenità nonostante la sofferenza, la sua preoccupazione per la giovane moglie che lasciava sola. Forse era proprio lei il pensiero che lo teneva legato a quel luogo? O c’era qualcos’altro?
Tornarono nella stanza, ora immersa in un silenzio ancora più carico di mistero. Filippo notò un piccolo libro appoggiato sul comodino, dimenticato durante il frettoloso inventario post-mortem. Era un volume di poesie di Neruda, con un segnalibro inserito a metà.
Lo prese con cautela, quasi avesse timore di contaminare qualcosa di sacro. Lesse il titolo: “Venti poesie d’amore e una canzone disperata”.
“Michele amava la poesia,” sussurrò Andrea, ricordando vagamente una conversazione avuta con il paziente. “Parlava spesso della bellezza dei versi di Neruda.”
Filippo aprì il libro alla pagina indicata dal segnalibro. I loro occhi si posarono su alcuni versi sottolineati con una matita sbiadita:
“…E per questo il mio canto di giorno e di notte cerca la chiave che ancora non ho trovato…”
Un brivido percorse la schiena di entrambi. Era possibile che Michele stesse cercando qualcosa? Qualcosa che non aveva trovato in vita?
“La chiave…” mormorò Filippo. “Cosa potrebbe essere?”
Andrea si avvicinò al letto, scrutando ogni angolo della stanza. Il suo sguardo si posò su un piccolo cassetto del comodino, apparentemente chiuso a chiave.
“Filippo,” disse con un tono di voce improvvisamente più deciso, “non mi ricordo di aver visto questo cassetto aperto durante l’inventario. Forse… forse è lì che dobbiamo cercare.”
Sentivano entrambi una strana eccitazione mescolata a un timore reverenziale. Era possibile che stessero per svelare un segreto custodito oltre la morte?
Cosa conterrà quel cassetto? E come faranno Filippo e Andrea ad aprirlo senza destare sospetti?
L’aria nella stanza si fece ancora più densa di aspettativa. Il piccolo cassetto chiuso a chiave sembrava emanare un’aura di mistero, come se custodisse un segreto sussurrato dall’aldilà.
Andrea cercò tra i suoi attrezzi un qualcosa che potesse fare al caso, trovando infine una vecchia graffetta che tentò di raddrizzare. Con mani insolitamente tremanti, la inserì nella serratura, armeggiando con delicatezza. Filippo osservava in silenzio, il cuore in gola. I minuti sembraronoeterni, scanditi solo dai leggeri scricchiolii del metallo.
Finalmente, un piccolo “click” ruppe il silenzio. Andrea sollevò lo sguardo, un misto di sorpresa e trionfo negli occhi. Il cassetto si aprì.
All’interno, trovarono una piccola scatola di legno scuro, liscia e senza decorazioni. La aprirono con cautela. Dentro non c’era denaro, né gioielli. Solo una lettera piegata e una vecchia fotografia.
Andrea prese la lettera, le mani ancora incerte. La carta era sottile e ingiallita dal tempo. La aprì delicatamente e iniziò a leggere a bassa voce:
“Mia dolce Elena,
Se stai leggendo questa lettera, significa che il mio tempo è giunto alla fine. Non temere, amore mio. Ho combattuto con tutte le mie forze, ma il destino ha avuto la meglio. Volevo dirti tante cose, ma le parole a volte non bastano.
C’è un desiderio che mi porto dentro, un ultimo desiderio che spero tu possa realizzare. Ricordi la nostra promessa, fatta sotto il vecchio ulivo nel giardino dei tuoi genitori? Quella di piantare un giorno un albero di limoni, simbolo della nostra terra, della nostra vita insieme?
Non ho avuto il tempo di farlo. Ti chiedo, Elena mia, di farlo tu per me. Pianta quell’albero. Prenditene cura. E ogni volta che vedrai i suoi frutti gialli brillare al sole, pensa a me. Pensa al nostro amore, forte e luminoso come quei limoni.
Ti amo più della mia stessa vita.
Per sempre tuo,
Michele”
Le parole risuonarono nella stanza, cariche di un amore puro e di un rimpianto dolceamaro. Filippo sentì una stretta al cuore. Era questa “chiave” che Michele cercava? Non una chiave fisica, ma la realizzazione di un suo desiderio più profondo?
Andrea prese la fotografia. Era un’immagine sbiadita di un giovane Michele sorridente, abbracciato a una ragazza con lunghi capelli scuri. Elena.
In quel momento, una brezza leggera accarezzò i loro volti, proveniente apparentemente dal nulla. Un profumo delicato di fiori di limone pervase l’aria, fugace ma intenso. Poi, il silenzio tornò a regnare, un silenzio però diverso, non più carico di mistero, ma di una serena malinconia.
Si guardarono. Non c’era più traccia della figura traslucida di Michele. Ma sentivano entrambi una strana sensazione di pace, come se un peso fosse stato sollevato.
“Credo che… credo che volesse solo che la sua promessa fosse mantenuta,” sussurrò Filippo, gli occhi lucidi.
Andrea annuì, commosso. “Dobbiamo trovare Elena. Dobbiamo consegnarle questa lettera e questa fotografia.”
Il mattino seguente, Filippo e Andrea si misero subito all’opera. Grazie alle informazioni contenute nella cartella clinica di Michele, riuscirono a rintracciare Elena. La trovarono nella sua casa, ancora immersa nel dolore per la recente perdita.
Quando Andrea le consegnò la lettera e la fotografia, Elena scoppiò in un pianto liberatorio. Lesse le parole di Michele con le lacrime agli occhi, stringendo la foto al petto.
Qualche settimana dopo, Filippo e Andrea furono invitati da Elena. Nel giardino della sua casa, sotto un cielo azzurro, un giovane albero di limoni era stato piantato. Le sue foglie verdi brillavano al sole, promessa di futuri frutti dorati.
Elena sorrise loro, con un velo di tristezza negli occhi ma con una ritrovata serenità nel cuore. “Grazie,” sussurrò. “Avete realizzato il suo ultimo desiderio. Ora so che Michele è in pace.”
Filippo e Andrea si scambiarono un’occhiata. Non avrebbero mai dimenticato la notte in cui avevano incontrato il fantasma del Santobono. Un incontro che li aveva portati a comprendere che a volte, l’amore e i desideri più profondi possono trascendere i confini della vita e della morte, lasciando dietro di sé un profumo delicato di limoni e la consapevolezza che anche nell’oscurità, la speranza può fiorire.
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