La notte infinita di una OSS.
Elena, un’Operatrice Socio-Sanitaria (OSS) di 35 anni, lavorava alla Casa di Riposo “Serena Assistenza” da oltre un decennio. La struttura, un tempo accogliente e ben organizzata, negli ultimi anni aveva visto un progressivo declino. I tagli al personale e la mancanza di risorse avevano reso il lavoro sempre più difficile, soprattutto di notte. Con sessanta anziani da accudire, ognuno con le proprie fragilità e necessità, Elena si trovava spesso sola a gestire situazioni che richiedevano ben più di due mani.
L’infermiere di turno, il signor Rossi, era diventato un’ombra. Alle 22:00 in punto somministrava gli ultimi farmaci, poi si chiudeva nella sua stanza con un secco “Non disturbarmi fino alle 7”. Nemmeno le urla di dolore o le emergenze più critiche riuscivano a smuoverlo. Elena aveva provato a parlargli, a spiegargli che non poteva farcela da sola, ma lui si limitava a scrollare le spalle. “Non è il mio problema”, aveva detto una volta, senza neppure guardarla in faccia.
Quella notte, come tante altre, Elena era in corridoio, controllando le stanze una dopo l’altra. Il silenzio era rotto solo dal ticchettio dell’orologio e dai lievi rumori della struttura. Intorno alle 2:30, un gemito soffocato la fece sobbalzare. Corse nella stanza del signor Bianchi, un ottantenne con problemi cardiaci, e lo trovò pallido, sudato, con una mano stretta sul petto. “Mi fa male…”, sussurrò lui, con voce tremante. Elena sentì il cuore accelerare. Sapeva che non poteva perdere tempo.
Bussò alla porta di Rossi, prima delicatamente, poi con sempre più forza. “Signor Rossi, è un’emergenza! Il signor Bianchi sta male!”. Nessuna risposta. Provò a chiamarlo al telefono interno, ma la linea era muta. Senza esitare, prese il cellulare e chiamò il 118. Mentre aspettava i soccorsi, rimase accanto al signor Bianchi, parlandogli con calma e tenendogli la mano. “Resisti, signor Bianchi. L’ambulanza sta arrivando. Resisti per me.”
I minuti sembravano ore, ma finalmente arrivarono i paramedici. Elena fornì loro tutte le informazioni necessarie, poi li guardò portare via il signor Bianchi su una barella. Rimase in piedi nel corridoio, le mani ancora tremanti, mentre la porta si chiudeva dietro di loro. Si sentiva vuota, esausta, ma soprattutto arrabbiata. Quella notte aveva rischiato di perdere un paziente, e tutto perché Rossi non aveva voluto alzarsi dal letto.
Il giorno dopo, Elena decise di agire. Andò in direzione e chiese un incontro con la dottoressa Marini, la responsabile della struttura. Le raccontò tutto: le notti insonni, le emergenze gestite da sola, l’indifferenza di Rossi. La dottoressa ascoltò in silenzio, ma il suo sguardo era preoccupato. “Elena, capisco la tua frustrazione, ma non possiamo fare miracoli. Il personale è ridotto all’osso, e Rossi… beh, è difficile da gestire.”
Elena non si arrese. Parlò con altri colleghi, scoprendo che molti condividevano le sue preoccupazioni. Insieme, redassero una lettera formale, chiedendo cambiamenti immediati. La pressione funzionò: la direzione avviò un’indagine interna e, dopo qualche settimana, annunciò nuove misure. I turni notturni furono riorganizzati, garantendo la presenza attiva di un infermiere disponibile per l’intera durata del turno. Rossi, messo di fronte alle sue responsabilità, accettò di partecipare a un corso di gestione dello stress e di migliorare il suo approccio al lavoro.
Con il tempo, la situazione migliorò. Elena continuò il suo lavoro con rinnovata fiducia, sapendo di poter contare su un team più coeso e responsabile. Una sera, mentre controllava le stanze, ricevette una chiamata dall’ospedale. Era il signor Bianchi. “Elena, ti devo la vita”, le disse, con voce commossa. “Grazie per non avermi abbandonato.”
Quelle parole le riscaldarono il cuore. Elena sapeva che il suo lavoro era difficile, ma anche profondamente gratificante. E, finalmente, non si sentiva più sola.
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