Il sapore salmastro del ritorno. Infermiere abbandona il Belgio e torna nel Sud Italia.
Il sole mi picchiava sulla nuca mentre trascinavo la valigia giù dal treno regionale. Un caldo umido, appiccicoso, completamente diverso dalla brezza fresca e quasi metallica del Belgio. Ma questo era il mio caldo, l’odore acre dei motorini che sfrecciavano sulla strada era la mia cacofonia. Cinque anni lontano da casa, un’eternità e un battito di ciglia allo stesso tempo.
Bruxelles mi aveva dato tanto. La competenza, la specializzazione che ora mi rendeva un professionista ricercato nel campo dello stroke. Ricordo ancora le notti passate sui libri, la soddisfazione di capire un meccanismo complesso del cervello, la fiducia crescente dei miei superiori. Guadagnavo bene, vivevo in un appartamento moderno, avevo persino imparato ad apprezzare certe birre dal sapore inconfondibile.
Eppure, c’era sempre quella nota stonata. Un senso di incompletezza che nessuna waffle al cioccolato riusciva a mascherare. Le conversazioni con i colleghi, per quanto cordiali, si fermavano sempre a un certo punto, come un disco graffiato. Sentivo il loro rispetto professionale, ma non quella scintilla di vera connessione umana che cercavo. Il mio francese era fluente, il mio inglese funzionale, ma il mio dialetto catanzarese restava imprigionato nella gola, un tesoro prezioso da rispolverare solo nelle rare telefonate con la mia famiglia.
Il primo abbraccio di mia madre sul binario è stato come un balsamo. Stretto, profumato di bucato e di quel suo inconfondibile profumo di “casa”. Le sue guance rugose, bagnate di lacrime silenziose, mi hanno detto più di mille parole. Mio padre, un omone di poche parole ma dagli occhi lucidi, mi ha dato una pacca sulla spalla che valeva più di tutti i complimenti ricevuti in Belgio.
“Bentornato, figliolo,” ha detto semplicemente, la voce un po’ roca. In quel momento, ho saputo di aver fatto la scelta giusta.
L’ospedale Pugliese-Ciaccio era un organismo vivo, pulsante di un’energia caotica ma innegabilmente umana. Certo, non c’erano le luci asettiche e l’organizzazione millimetrica del centro di Bruxelles. Qui, i corridoi erano più affollati, le pratiche burocratiche sembravano seguire logiche imperscrutabili e a volte bisognava ingegnarsi per trovare un certo tipo di attrezzatura.
Il primario, il dottor Russo, mi aveva accolto con un sorriso largo e un caloroso “Benvenuto a casa, Andrea!”. Era un uomo alla vecchia maniera, con una stretta di mano forte e un’esperienza sul campo che nessuna specializzazione estera poteva eguagliare. I colleghi mi avevano fatto sentire subito parte del gruppo, con battute in dialetto, inviti al caffè e un genuino interesse per la mia esperienza in Belgio.
Ho subito notato la differenza nell’approccio ai pazienti. Certo, la competenza medica era indiscussa anche qui, ma c’era un’attenzione diversa, un calore umano che andava oltre il protocollo. Ricordo la signora Emilia, una paziente anziana colpita da un ictus. In Belgio, l’approccio sarebbe stato rigorosamente clinico, focalizzato sulla riabilitazione fisica e del linguaggio. Qui, l’infermiera le teneva la mano mentre le parlava in dialetto, cercando di rassicurarla, e il dottor Russo si fermava a scambiare due chiacchiere con il nipote, creando un legame che andava oltre il rapporto medico-paziente.
Inizialmente, devo ammetterlo, un piccolo senso di frustrazione l’ho provato. Vedere procedure che in Belgio erano standard qui eseguite in modo più “artigianale” mi spiazzava. Ma poi capivo. Capivo che spesso la mancanza di risorse veniva compensata dall’ingegno, dalla collaborazione e da una profonda empatia per il paziente e la sua famiglia.
Una sera, mentre aiutavo un collega a trovare un particolare tipo di tutore, mi ha detto con un sorriso sornione: “Andrea, qui non avremo i robot che fanno il caffè, ma abbiamo un cuore grande così”. E in quel momento, ho capito che aveva ragione.
La sera, dopo il lavoro, mi ritrovavo spesso al bar sotto casa, lo stesso dove passavo i pomeriggi da ragazzo a sognare di andare lontano. Solo che ora ero tornato, e le chiacchiere con gli amici avevano un sapore diverso, più pieno. Potevo finalmente esprimermi senza filtri, senza dover tradurre ogni sfumatura di pensiero in una lingua straniera.
Il dialetto catanzarese, con le sue inflessioni uniche, le sue espressioni colorite, era come una musica ritrovata. Ogni “ajò”, ogni “mischinu”, ogni “ma che dici?” era un pezzo del mio puzzle interiore che tornava al suo posto. Le risate erano più fragorose, le discussioni più animate, i silenzi più carichi di significato.
Una sera, Peppe, un mio vecchio compagno di scuola che ora gestiva il bar, mi ha chiesto: “Andre’, ma dicci la verità, come mai sei tornato? Lì guadagnavi ‘sti sordi…”.
Ho sorseggiato la mia birra, guardando il viavai della gente fuori. “Peppe,” ho risposto, cercando le parole giuste, “lì avevo i soldi, è vero. Ma qui… qui ho ritrovato me stesso. Lì ero un numero, un professionista competente. Qui sono Andrea, il figlio di Maria e Antonio, quello che giocava a pallone nel campetto dietro la chiesa. Lì parlavo di protocolli e statistiche. Qui parlo di calcio, di politica, di come sta andando la vendemmia. Lì mi mancava l’aria, Peppe. Qui… qui respiro.”
Peppe ha annuito, capendo al volo. Non servivano altre spiegazioni. Sapeva cosa intendevo. Era la lingua del cuore, quella che avevamo imparato fin da bambini, quella che ci legava indissolubilmente alla nostra terra.
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