La forza della presenza: oltre il dovere di un OSS
Il mio turno è finito da dieci minuti, ma non riesco ad andarmene.
La luce fioca del corridoio lascia spazio ai primi bagliori dell’alba. Passo davanti a una stanza e lo vedo. È sveglio, con lo sguardo perso oltre la finestra. Non mi chiama, ma non serve.
Mi fermo sulla porta.
“Non riesci a dormire?” chiedo a bassa voce.
Lui sospira, abbassa lo sguardo.
“Sai qual è la cosa più difficile?” sussurra. “Non il dolore. Non la stanchezza. È la solitudine.”
Quelle parole mi stringono il petto. Senza pensarci, mi avvicino e mi siedo accanto a lui. Non ho soluzioni, non ho promesse. Ma ho tempo. Ho ascolto. Ho presenza.
E così restiamo lì, due persone in una stanza silenziosa, mentre fuori il mondo ricomincia a girare. Non servono discorsi. A volte, la cosa più potente che puoi dire è: “Sono qui.”
Solo quando il suo respiro si fa più lento e sereno mi alzo e vado. Il mio turno era finito da un pezzo, ma certe presenze non hanno orari.
Essere OSS: molto più che un lavoro
Essere Operatore Socio Sanitario non significa solo assistere fisicamente i pazienti. Significa esserci, ascoltare, comprendere. A volte, il bisogno più grande non è un farmaco, ma una presenza umana.
Ogni giorno, negli ospedali, nelle case di riposo, nelle strutture assistenziali, ci sono professionisti che vanno oltre il dovere. Perché la cura non è solo tecnica, è anche cuore.
Il valore del tempo e dell’empatia
Nella frenesia della sanità, dove il tempo è sempre poco e gli impegni sono tanti, è facile dimenticare quanto possa essere importante un minuto in più accanto a qualcuno. Ma per chi si sente solo, quel minuto può fare la differenza.
Essere OSS significa anche questo: donare tempo, anche quando non è scritto sul cartellino.
E alla fine, è questo che resta.
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